HIKIKOMORI E SCUOLA : ANALISI DEL FENOMENO

Il termine “Hikikomori” viene dal giapponese e significa letteralmente “stare in disparte, isolarsi”.
Indica un fenomeno psicologico e sociale in cui adolescenti o giovani adulti si ritirano
completamente dalla vita sociale per lunghi periodi (mesi o anni), rimanendo chiusi in casa, spesso
nella propria stanza, con pochissimi contatti con l’esterno.

La sindrome Hikikomori, nata in Giappone,  ma ormai diffusa anche in molte società occidentali,

si manifesta principalmente durante l’adolescenza, ovvero in un periodo della vita strettamente connesso all’esperienza scolastica.

La scuola, infatti, non rappresenta solo il luogo di apprendimento, ma anche il principale spazio di
socializzazione per i giovani. Proprio per questo motivo, il contesto scolastico può diventare un
punto nevralgico nella dinamica del ritiro sociale. L’adolescente che sviluppa comportamenti
riconducibili all’Hikikomori tende progressivamente a chiudersi in se stesso, rifiutando ogni forma
di interazione con l’ambiente esterno, compresa la frequenza scolastica. A differenza di altri tipi di
disagio scolastico, il ritiro Hikikomori non è limitato alla sola sfera accademica, ma si estende a
tutto il piano sociale e familiare, rendendo la scuola uno dei primi luoghi da cui ci si allontana.
Molti dei fattori che possono contribuire all’insorgere della sindrome trovano terreno fertile proprio
all’interno della scuola. Tra questi, spiccano le pressioni legate al rendimento scolastico, le
aspettative elevate da parte di insegnanti e famiglie, e l’esperienza di esclusione sociale o bullismo.
La scuola può facilmente diventare un ambiente percepito come giudicante e opprimente,
soprattutto per quegli studenti che presentano una personalità più introversa, perfezionista o
sensibile.

Nel caso degli Hikikomori, la difficoltà di affrontare il confronto diretto con i coetanei, le dinamiche di gruppo e

il costante bisogno di rispondere a determinati standard di successo scolastico si traducono in un progressivo evitamento.

Questo evitamento non si limita solo alle aule scolastiche, ma si estende al ritiro completo dalla vita sociale,

con una preferenza per spazi virtuali
come internet e videogiochi, che offrono un controllo maggiore e riducono il rischio di esposizione
all’ansia sociale.

Dal punto di vista scolastico, quindi, il fenomeno Hikikomori si presenta come una
sfida complessa. Non si tratta semplicemente di intervenire su casi di assenteismo scolastico o
difficoltà di apprendimento, ma di riconoscere che alla base di quel ritiro c’è un disagio più
profondo, che coinvolge l’identità del giovane e la sua capacità di affrontare le relazioni sociali.

È fondamentale che la scuola adotti un approccio attento e non coercitivo, capace di leggere i segnali
precoci del disagio e di attivare un dialogo rispettoso dei tempi e delle fragilità dell’adolescente. In
quest’ottica, la collaborazione tra scuola, famiglia e professionisti della salute mentale diventa
essenziale. La scuola può giocare un ruolo chiave non solo nella prevenzione, creando ambienti
inclusivi e non competitivi, ma anche nell’accompagnare il ragazzo verso un possibile
reinserimento graduale, evitando forzature che rischierebbero di acuire il rifiuto. In definitiva, il
fenomeno Hikikomori nel contesto scolastico mette in luce l’importanza di un modello educativo
che sappia valorizzare il benessere emotivo dello studente, riconoscendo la scuola non solo come
luogo di istruzione, ma come spazio di crescita personale e relazionale.

Il ruolo delle politiche scolastiche nel contrasto al fenomeno Hikikomori

Le istituzioni scolastiche, in quanto agenzie educative e socializzanti fondamentali, possono
assumere un ruolo cruciale nella gestione e nella prevenzione del fenomeno Hikikomori.

Tuttavia,affinché possano farlo in maniera efficace, è necessario che le politiche scolastiche si orientino
verso una concezione della scuola come spazio che promuove il benessere psicologico degli
studenti e non soltanto come luogo finalizzato alla mera trasmissione di conoscenze. In primo
luogo, è importante che le scuole adottino politiche di prevenzione del disagio giovanile strutturate
e sistematiche, piuttosto che limitarsi a interventi sporadici e reattivi. Questo significa implementare
programmi di educazione socio-affettiva già a partire dai primi anni scolastici, finalizzati a
sviluppare le competenze emotive, l’empatia, la gestione dello stress e le capacità relazionali degli
studenti. La scuola deve diventare un ambiente che favorisce l’espressione delle emozioni e che
sostiene i ragazzi nel riconoscere e comunicare il proprio disagio, senza stigmatizzazione. Un altro
aspetto fondamentale riguarda le politiche anti-bullismo e di inclusione sociale.

Poiché il ritiro sociale può essere favorito da dinamiche di esclusione, emarginazione o vessazione tra pari, la
scuola deve dotarsi di protocolli chiari per prevenire e gestire episodi di bullismo, promuovendo al
contempo una cultura della diversità e del rispetto reciproco.

Le attività di gruppo, i laboratori cooperativi e i progetti di peer education sono strumenti preziosi per rafforzare il senso

di appartenenza e di comunità scolastica, contrastando l’isolamento.

Sul piano organizzativo, le scuole dovrebbero prevedere la presenza stabile di figure professionali specializzate: psicologi scolastici,
educatori, mediatori culturali e tutor che possano agire da intermediari tra scuola, famiglia e servizi
territoriali. La figura dello psicologo scolastico, in particolare, può essere decisiva non solo per
offrire sportelli d’ascolto, ma anche per formare gli insegnanti a riconoscere i segnali precoci del
ritiro sociale.

Parallelamente, è necessario che le politiche scolastiche favoriscano una maggiore flessibilità didattica e organizzativa.

Per uno studente Hikikomori, l’imposizione rigida della frequenza scolastica tradizionale può rappresentare un ostacolo insormontabile.

In tal senso, strumenti come la didattica a distanza personalizzata, percorsi individualizzati, possibilità di orari
ridotti o moduli formativi alternativi possono costituire una modalità efficace per mantenere un
legame educativo senza generare ulteriore pressione.

Un altro livello fondamentale è quello della collaborazione inter-istituzionale. La scuola da sola non può farsi carico dell’intero processo di
recupero di uno studente Hikikomori.

Occorre quindi un dialogo costante con i servizi di neuropsichiatria infantile, con gli assistenti sociali, con le famiglie e, laddove possibile,

anche con associazioni e reti territoriali che si occupano di disagio giovanile. Le politiche scolastiche
dovrebbero prevedere protocolli chiari per attivare questi interventi integrati, superando le barriere
burocratiche che spesso rallentano la presa in carico.

Conclusione
E’ importante che a livello ministeriale si sviluppino linee guida nazionali che riconoscano il
fenomeno Hikikomori come una problematica emergente da affrontare in modo specifico,
garantendo risorse economiche adeguate alle scuole per poter implementare tali azioni.

In sintesi, gli strumenti concreti che la scuola può mettere in atto sono:
– Educazione socio-affettiva e programmi di benessere emotivo continuativi
– Politiche anti-bullismo efficaci e promozione dell’inclusione sociale.
– Presenza stabile di figure specialistiche (psicologi, educatori, tutor).
– Flessibilità didattica: percorsi individualizzati, didattica a distanza, orari modulabili.
– Collaborazione stretta con famiglia e servizi territoriali.
– Linee guida nazionali specifiche e fondi dedicati alla prevenzione del ritiro sociale.

Tutto questo richiede una visione della scuola che non si limiti al rendimento, ma che investa
sull’interezza della persona, riconoscendo il legame profondo tra benessere psichico, relazioni
sociali e percorso educativo.

Autrice : Marisa De Domenico  –  Psicologa esperta in orientamento scolastico e DSA