In un’epoca segnata da velocità, iperproduttività e insicurezza globale, il bisogno di controllo rappresenta una strategia di adattamento
sempre più diffusa. Tuttavia, la ricerca ossessiva di prevedibilità e perfezione rischia di diventare un boomerang psicologico.
Questo articolo esplora il paradosso del controllo, ovvero il fenomeno secondo cui l’eccessivo tentativo di gestire emozioni, pensieri ed eventi conduce spesso a una maggiore instabilità emotiva, rigidità comportamentale e disagio psichico.
Verranno analizzate le basi teoriche del controllo psicologico, i rischi legati all’evitamento esperienziale e le risorse offerte dagli approcci terapeutici moderni, come la Acceptance and Commitment Therapy (ACT), la mindfulness e il problem solving strategico.
L’obiettivo è promuovere una riflessione sul valore terapeutico della flessibilità psicologica e dell’accettazione, riscoprendo nella rinuncia al controllo una possibile via di autenticità e benessere.
Il bisogno umano di controllo: radici evolutive e culturali
Il bisogno di controllo è profondamente radicato nella nostra evoluzione biologica e culturale. Da un punto di vista evolutivo, la capacità di prevedere e influenzare l’ambiente ha rappresentato un vantaggio fondamentale per la sopravvivenza. Gli esseri umani hanno sviluppato strategie cognitive e comportamentali finalizzate a ridurre l’incertezza e aumentare le probabilità di successo nell’adattamento all’ambiente. La possibilità di controllare le variabili esterne, come il clima, la disponibilità di cibo o le minacce alla sicurezza, ha favorito la trasmissione genetica e culturale di comportamenti orientati al controllo.
Nelle società moderne, tuttavia, questo bisogno naturale si è trasformato in una spinta culturale spesso esasperata. Viviamo in un contesto in cui il successo personale è frequentemente associato alla capacità di “tenere tutto sotto controllo”. La cultura occidentale promuove l’idea di un individuo efficiente, performante, razionale, capace di dominare i propri impulsi e plasmare la realtà a propria immagine. I messaggi veicolati dai media, dall’educazione e dalla società suggeriscono che ogni aspetto della nostra vita – dalle emozioni alle relazioni, dalla carriera al corpo – debba essere controllato, ottimizzato, misurato. Ma cosa succede quando questa tensione al controllo diventa eccessiva?
Quando il controllo diventa disfunzionale: segnali clinici e trappole cognitive
Il bisogno di controllo, da risorsa adattiva può facilmente trasformarsi in una trappola psicologica. Laddove il controllo diventa una strategia onnipresente e rigida, il rischio è quello di sviluppare sintomi clinici che riflettono un disagio più profondo. Molti disturbi psicologici sono caratterizzati da un’eccessiva esigenza di controllo: disturbo ossessivo-compulsivo, disturbi d’ansia, disturbi alimentari, e perfino alcune forme di depressione.
Tra i segnali più evidenti di un controllo disfunzionale troviamo la rigidità cognitiva, ovvero la difficoltà a tollerare l’ambiguità, il cambiamento e l’errore. Le persone che ne soffrono tendono ad aderire a regole rigide, faticano ad adattarsi a nuove situazioni e vivono il cambiamento come minaccia. A ciò si accompagna una iperattivazione ansiosa, che spinge l’individuo a cercare di prevenire ogni possibile rischio attraverso ipervigilanza, rimuginìo e pianificazione compulsiva.
Un altro aspetto centrale è l’evitamento esperienziale, definito come la tendenza a evitare attivamente emozioni, pensieri o ricordi percepiti come dolorosi. Questo evitamento, a lungo termine, impoverisce la vita affettiva e relazionale e produce una maggiore vulnerabilità psicopatologica.
La trappola cognitiva principale è che più si cerca di controllare la sofferenza, più essa si amplifica, in un circolo vizioso difficile da interrompere.
Il ruolo dell’evitamento esperienziale e del pensiero dicotomico
L’evitamento esperienziale è una strategia psicologica comune che consiste nel tentativo di sottrarsi o resistere a emozioni, pensieri, sensazioni o ricordi spiacevoli. Se da un lato questa tendenza è comprensibile – nessuno ama soffrire – dall’altro rappresenta uno dei principali ostacoli al benessere psicologico. Diversi studi (Hayes et al., 1996; 1999) hanno dimostrato come l’evitamento esperienziale sia correlato a una vasta gamma di disturbi psicologici, tra cui ansia, depressione, disturbi post-traumatici e dipendenze patologiche.
Ad alimentare questa dinamica c’è spesso una visione dicotomica dell’esperienza: le emozioni sono viste come buone o cattive, desiderabili o da sopprimere. Questo tipo di pensiero binario alimenta un giudizio costante su ciò che si prova, e spinge la persona a rifiutare tutto ciò che non rientra nella categoria delle emozioni “positive”. In questo modo, la persona si allontana dalla realtà concreta del proprio vissuto e rinforza un modello mentale che la isola dal contatto autentico con sé stessa.
Nel tempo, questa fuga costante dal dolore impedisce ogni forma di elaborazione e crescita. I vissuti emotivi evitati non svaniscono, ma si accumulano, si cristallizzano e spesso riemergono in forme più disfunzionali, come sintomi somatici, attacchi di panico o condotte compulsive.
Il paradosso nelle psicoterapie: più controllo = meno benessere
Molti modelli terapeutici contemporanei convergono su un punto: la sofferenza psicologica non nasce solo da esperienze dolorose, ma soprattutto dal modo in cui le persone vi reagiscono. La Acceptance and Commitment Therapy (ACT), ad esempio, invita a smettere di lottare contro pensieri ed emozioni indesiderati e a spostare il focus sull’azione impegnata verso i propri valori. L’ACT insegna che la qualità della vita dipende non tanto dal controllo degli stati interni, quanto dalla disponibilità a sperimentarli pienamente e a orientare il comportamento in modo coerente con ciò che conta davvero.
La mindfulness, pratica di consapevolezza e attenzione al presente, lavora nella stessa direzione: insegnare a osservare i contenuti mentali senza giudizio e senza attaccamento. Questa posizione mentale riduce la reattività automatica e aumenta la capacità di rispondere in modo flessibile alle difficoltà.
Un altro approccio interessante è quello del problem solving strategico, che utilizza il paradosso terapeutico per disattivare i tentativi disfunzionali di controllo. In questo modello, il terapeuta può prescrivere al paziente di accentuare volontariamente il sintomo (ad esempio, rimuginare a un’ora precisa del giorno), in modo da ridurre il bisogno compulsivo di evitarlo o combatterlo. In tutti questi casi, il messaggio è lo stesso: è il tentativo di controllo a mantenere il problema.
Strategie per allenare la flessibilità: dal paradosso alla pratica terapeutica
Rinunciare al controllo non significa vivere in balia del caos, ma imparare a orientarsi in modo più saggio e coerente nelle proprie scelte, anche in presenza di esperienze difficili. Allenare la flessibilità psicologica richiede pratica, consapevolezza e disponibilità al rischio emotivo. Tra le strategie più efficaci troviamo:
- Defusione cognitiva: tecnica dell’ACT che aiuta a “de-fondersi” dai pensieri, osservandoli come semplici eventi mentali. Ad esempio, trasformare “Sono un fallito” in “Sto avendo il pensiero che sono un fallito” riduce il potere persuasivo del pensiero.
- Chiarificazione dei valori: identificare ciò che è veramente importante per sé (es. relazioni, creatività, onestà) e orientare le azioni verso questi obiettivi, anche quando l’esperienza interiore è spiacevole.
- Esposizione all’incertezza: introdurre gradualmente nella propria vita situazioni non prevedibili, senza evitarle, per allenare la tolleranza all’ambiguità. Questo aiuta a sviluppare fiducia nella propria capacità di affrontare ciò che non si può controllare.
- Uso del paradosso: accettare con autoironia il proprio bisogno di controllo può essere già un primo passo per disattivarlo. Ad esempio, prendersi gioco gentilmente dei propri rituali o delle proprie paure, senza giudizio, può creare uno spazio di libertà.
Queste strategie non eliminano il dolore, ma offrono strumenti per viverlo con maggiore apertura e resilienza.
Conclusioni: accettare l’imprevedibile come atto di forza interiore
In conclusione, il paradosso del controllo ci insegna che più cerchiamo di dominare ogni aspetto della nostra esperienza, più rischiamo di perdere il contatto con ciò che è vivo, autentico e significativo. Rinunciare al controllo non equivale a cedere all’inerzia o alla rassegnazione, ma rappresenta un atto di coraggio e fiducia nella propria capacità di stare nella complessità della vita.
Accettare l’imprevedibilità, la vulnerabilità e l’imperfezione significa riconoscere che non tutto è sotto il nostro dominio, ma che molto è sotto la nostra responsabilità: la responsabilità di scegliere come rispondere a ciò che accade, di restare fedeli ai propri valori, di restare presenti anche quando si è feriti. È proprio in questa apertura che può nascere una nuova forma di benessere: una serenità non fondata sulla sicurezza, ma sulla presenza.
Il controllo illusorio ci promette stabilità, ma ci consegna spesso solitudine e rigidità. La flessibilità, invece, ci insegna a danzare con l’incertezza, a trovare equilibrio nel movimento, a scoprire libertà proprio nel lasciar andare.
Autrice : Beatrice Leonello – Psicologa
Bibliografia
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- Hayes, S. C., Wilson, K. G., Gifford, E. V., Follette, V. M., & Strosahl, K. (1996). Experiential avoidance and behavioral disorders: A functional dimensional approach to diagnosis and treatment. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 64(6), 1152.
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