L’INTELLIGENZA: TEORIE E STUDI DI IERI E DI OGGI

L’intelligenza umana non si caratterizza come un fattore coerente e delineato, piuttosto si manifesta ed esprime attraverso un insieme numeroso di abilità, comportamenti, pensieri ed emozioni. Molti sono stati i tentativi di definire il concetto di intelligenza in modo univoco e standard, ma senza successo. Il motivo sta nel fatto che l’intelligenza non è qualcosa che si possiede o non si possiede, ma un di elementi che trovano compimento in tutti i nostri comportamenti e pensieri. Proprio per questo è anche difficile misurare l’intelligenza di una persona facilmente, poiché i test non sono in grado di cogliere tutte le sfaccettature dell’intelligenza umana, così facendo misurano determinate capacità ma ne trascurano altre.

Le prime teorizzazioni sulla natura dell’intelligenza risalgono addirittura all’antica Grecia e la descrivono come l’insieme delle facoltà mentali o cognitive che vengono viste come diverse dalle componenti emotive.

Lo psicologo Charles E. Spearman, nei primi anni del ‘900, propose una teoria dell’abilità generale, che postulava l’esistenza di un singolo fattore di intelligenza o abilità, il fattore “g”, definendolo come “energia mentale” e che sarebbe alla base del rendimento in tutte le attività intellettuali. Nel 1950, lo psicologo Paul E. Vernon elaborò un modello gerarchico in cui il fattore g occupa la posizione più elevata della gerarchia, mentre l’abilità verbale-culturale e quella meccanico-pratica sono poste al di sotto.

Binet ed il suo collaboratore Simon vennero incaricati dal ministero dell’Istruzione francese di creare delle prove per valutare chi avesse un ritardo mentale e quindi bisogno di un’educazione speciale; così crearono la scala Binet-Simon, della quale furono create poi due versioni successive. Le prove erano ordinate in maniera crescente, secondo due tipi di “età”: quella cronologica che era rappresentata in anni e quella mentale rappresentata in anni e mesi ed indicava il grado di intelligenza raggiunto.

William Stern, dopo la morte di Binet nel 1912, pensò di indicare la rapidità dello sviluppo cognitivo come il rapporto tra le due età (mentale e cronologica) moltiplicato per 100; tale indice prese il nome di “quoziente intellettivo di rapporto” o più semplicemente “QI”. Se l’indice risultava maggiore di 100 allora si era nella media, viceversa si aveva un ritardo nello sviluppo delle abilità cognitive.

Una delle descrizioni più accreditate rimane quella di Jean Piaget, secondo cui l’intelligenza procede per stadi, infatti egli definisce una teoria dello sviluppo mentale con le relative fasi di passaggio dei vari stadi, che sono: senso-motorio dalla nascita ai 2 anni; pre-operatorio dai 2 ai 6 anni; operatorio concreto dai 6 ai 12 anni e operatorio formale dai 12 in poi.

Fonte: http://www.coachurself.it/education-2/

Fonte: http://www.coachurself.it/education-2/

Cattell ed il suo collaboratore Horn, hanno il merito di aver scoperto due fattori di secondo ordine che spiegano una parte di varianza dei risultati alle prove cognitive. Il primo fattore, relativo ad influenze ambientali e sociali e ad abilità ben consolidate, è chiamato intelligenza cristallizzata; il secondo soggetto ad un declino con l’avanzare dell’età e legato a capacità elastiche, è chiamato intelligenza fluida.

Un nome di rilievo nello studio dell’intelligenza è sicuramente Harold Gardner, il quale, nel 1993, sostenne che l’evoluzione umana ha permesso agli individui di svolgere fino ad otto forme di analisi che attengono, naturalmente, ad otto diverse intelligenze: linguistica, logico-matematica, musicale, spaziale, corporeo-cinestesica, naturalistica, interpersonale ed intrapersonale.

(Leggi anche: La “settima intelligenza”: la percezione di sè)

Un particolare tipo di intelligenza è l’intelligenza emotiva. L’utilizzo di questa particolare forma è stato adoperato per la prima volta  da Salovey e Mayer, ripreso poi da Goleman, nel 1995, il quale la definisce come una capacità grazie alla quale si motiva sé stessi, si persiste nel perseguire gli obiettivi nonostante le avversità, si controllano gli impulsi e i propri stati d’animo e si è empatici.

L’intelligenza è stata considerata per lungo tempo una capacità innata, in stretta dipendenza al patrimonio genetico ereditato dai genitori.

Oggi, invece, grazie ai tanti studi fatti in merito e principalmente grazie alle teorie di Piaget, si ritiene che sono sia i fattori genetici che quelli ambientali ad innalzare o abbassare il rendimento intellettuale dei bambini. Proprio per questo sono state fatte una serie di ricerche di confronto tra gemelli, tra fratelli e tra bambini adottivi per cercare di stabilire effettivamente quanto possa influire l’ereditarietà e quanto l’ambiente. Nonostante ancora non ci siano risposte effettive, si è potuto verificare che le capacità innate non possono trasformarsi in intelligenza se non vi è una stimolazione da parte dell’ambiente, quindi possiamo dire che un ambiente privo di stimoli inibisce sia la crescita che lo sviluppo dell’intelligenza.

Autrice: Maria Rita Panepinto, Dott.ssa in Discipline Psicosociali

 

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